giovedì 28 marzo 2013

Dissesto idrogeologico e incuria, morte in Brasile

Pubblicato su L'indro (vedi articolo originale)

Una settimana fa, nella zona collinare dello Stato di Rio de Janeiro c'era l'inferno: un fiume di fango è calato sulla cittadina di Petrópolis, provocando la morte di 33 persone, e oltre mille sfollati. Uno scenario poco diverso rispetto alla catastrofe ancor più tragica del gennaio 2011, che colpì questa stessa area geologicamente sensibile, e in particolare il centro abitato di Teresópolis. All'epoca, una frana causata da precipitazioni record originò il disastro naturale più grave (in termini di vite umane) che abbia mai colpito il Brasile, provocando la morte di circa novecento persone, e oltre trecento dispersi.

Sciagure che invero si ripetono ogni anno: in ogni semestre in cui il País tropical 'celebra' la stagione delle piogge - con suoi riti tradizionali e di folclore - arrivano puntuali anche le devastazioni.
A essere sotto accusa non sono soltanto i mutamenti climatici provocati dall'uomo, causa diretta della cosiddetta «estremizzazione dei fenomeni atmosferici». Si punta il dito soprattutto contro la trascuratezza delle autorità (specie statali e municipali), che non vigilano sulle costruzioni e i cantieri che sorgono come funghi sulle aree a rischio, né tantomeno - pur avendone le risorse - provvedono alle necessarie opere idrauliche di drenaggio.
Certi interventi strutturali - secondo gli esperti - potrebbero, infatti, limitare le conseguenze dell'erosione del territorio, del disboscamento selvaggio, e più in generale del dissesto idrogeologico. E tuttavia il malcontento dell'opinione pubblica finisce per coinvolgere anche i periodici allagamenti - e gli immaginabili disagi - che subiscono varie megalopoli del Paese (in primis San Paolo), tutte le volte in cui i millimetri di pioggia superano le medie mensili. Andiamo con ordine.
La presidente Dilma Rousseff, come ampiamente riportato anche dalla stampa italiana, nei giorni del disastro di Petrópolis era in Vaticano, per l'insediamento di papa Francesco. Col pensiero però si trovava nelle aree flagellate dello Stato di Rio, e dopo l'incontro col pontefice ha dichiarato alla stampa verdeoro: «Ci vogliono misure energiche, nel senso che se in un'area è vietato costruire, non vi si può costruire. Credo che in primo luogo si debba stabilire quali siano le zone a rischio; e quindi a chi vive lì, dobbiamo offrire delle adeguate condizioni affinché abbandoni la propria casa».
Le affermazioni romane del capo dello stato brasiliano sono servite, in parte, per attenuare e temperare quanto la Rousseff stessa aveva dichiarato in Brasile. «Il Governo federale», disse l'inquilino del Planalto subito dopo l'incontro col governatore Sérgio Cabral, e prima di imbarcarsi per l'Italia, «sta impiegando tutti i mezzi necessari per dare assistenza alle vittime. Il problema è che molte volte gli abitanti non vogliono lasciare le proprie case. Penso che dovranno essere prese delle misure un po' più risolute affinché i cittadini non restino in quelle regioni, ove non ci sono le condizioni per rimanere. E comunque», dichiarò in conclusione, «stiamo mobilitando l'intero nostro sistema di prevenzione dei disastri, per assistere quelle aree».
L'intervento, in seguito mitigato, ebbe a scatenare alcune polemiche: l'occupazione informale (più che illegale) di terreni per la costruzione d'improvvisate abitazioni, ha rappresentato un fenomeno costante nel Brasile degli ultimi decenni. Le favela - spuntate in ogni angolo delle sovrappopolate cinture urbane - hanno supplito all'insufficienza delle politiche urbanistiche, e alla mancanza d'idonei programmi di edilizia popolare: un nervo scoperto del Brasile contemporaneo, che le parole della Rousseff hanno forse toccato con troppa durezza.
E tuttavia va osservato che le calamità frutto del dissesto non colpiscono solo le baracche abusive dei disperati, erette ai margini di fiumi impetuosi, o comunque in zone pericolose: la tragedia di Teresópolis di due anni fa mostrò in mondovisione che gli smottamenti, le valanghe di terra e i torrenti straripati avevano travolto anche costruzioni in perfetta regola, ville e hotel di lusso.  Facendo anche vittime illustri, sia detto per inciso. In ogni caso, i settori più attenti della società civile individuano nella pessima gestione dei fondi pubblici - e quindi nella mancata costruzione delle necessarie opere per lo scolo delle acque - la principale causa del ripetersi dei dolorosi fenomeni.
Un rapporto dell'organizzazione non governativa (ong) Contas abertas - che in seguito alla recente frana di Petrópolis è stato ripreso da tutti i media nazionali - documenta che il Governo ha utilizzato solo un terzo dei capitali destinati alla prevenzione dei rischi e delle tragedie annunciate. In particolare, nel corso del 2012, per la messa in sicurezza del territorio, l'Esecutivo federale avrebbe dovuto investire 5miliardi e 700 milioni di real; tuttavia, secondo l'Ong, risulta che solo 2miliardi e 100milioni (equivalenti a poco più di 800 milioni di euro, nda) siano stati effettivamente impiegati a tale scopo.
Nel rapporto non lo si dice espressamente, ma il sospetto è che i ministeri competenti abbiano usato le risorse mancanti per il fine meno nobile di finanziare la politica; o peggio ancora, c'è chi pensa siano state trafugate da chi ne aveva la disponibilità. Si critica altresì la distribuzione dei fondi, che avrebbe preferito aree metropolitane di maggior visibilità come Rio, rispetto a quelle soggette a grave rischio, come la martoriata Petrópolis.
Si punta poi il dito sulla burocrazia, che Contas abertas giudica l'ostacolo principale all'esecuzione di azioni preventive nella regione collinare di Rio. «Secondo l'ultimo bollettino statale del Programa de aceleração do crescimento - Pac», recita il rapporto, «le quattro azioni finalizzate alla prevenzione in aree di rischio si trovano ancora in fase di gara d'appalto o di contrattazione, ossia esistono solo sulla carta».
Sul banco degli imputati, anche gli enti locali e specialmente i comuni, che non riuscirebbero a presentare nei termini stabiliti i progetti delle opere infrastrutturali di prevenzione: quelle che potrebbero, se non eliminare, almeno ridurre il rischio degli eventi. Forti infine le critiche nei confronti della Defesa civil, la Protezione civile brasiliana: poiché l'organo non è per nulla valorizzato dalle autorità - è il ragionamento di Contas abertas - non solo gli operatori mancano della professionalità necessaria, ma gli stessi ruoli al vertice sono assegnati con criteri politici, come si trattasse di un premio di consolazione.
Le prospettive non sono rosee, e all'orizzonte non appaiono avvisaglie che lascino presagire un'inversione di rotta: come nei decenni scorsi, il Governo di Brasilia continua a spendere infinitamente più nel rispondere, piuttosto che nel prevenire le calamità. E ciò vale non solo per gli eventi dall'esito fatale, ma anche per il mosa

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